Francesco Radino, per il volume Mutazioni, Art&, 1994
Sulla fotografia
Nella vita, così come la conosciamo, il tempo ci appare nemico: trascorrendo ci consuma e noi non riusciamo a trattenerlo, così come le reti non trattengono l’acqua.
La sua corrente ci trascina via, insieme ai rami e alle erbe, per poi portarci ad imputridire lontano.
Il nostro desiderio, da sempre, è di legarci a qualcosa, di cercare effimeri ormeggi.
Si narra che un poeta cinese dormisse in barca per dar modo ai suoi sogni di fondersi con quelli del loto, e così anche noi cerchiamo di legare la nostra presenza a qualcosa di magico, di duraturo, di bello.
Forse spinto da questo bisogno l’uomo ha fatto il suo ingresso nel mondo dell’arte.
Quello delle immagini è un luogo metastorico: nella storia tutto fluisce e nulla si ripete; nelle immagini fotografiche pare che l’esistenza trattenga il respiro, nulla fluisce più ed esse si collocano accanto al corso del tempo, silenziose ed immobili, per riproporsi infinite volte davanti al nostro sguardo. Certo, ci parlano di quel viso, di quell’albero, di quella casa laggiù, di cui avevamo perso memoria, ma non solo di questo.
Osservandole meglio ci accorgiamo come ci appaiano continuamente diverse perché noi ogni volta siamo diversi, cambiamo posizione rispetto al tempo e allo spazio ed esse ci seguono docili e testarde, sempre pronte a fornirci nuove letture, perché contengono più di un senso, sono irriducibili rispetto alle regole formali della logica, vanno oltre le funzioni originarie del linguaggio, del mito, della conoscenza concettuale.
Lenz
“......pensava però che si dovesse provare un sentimento infinito di voluttà a esser toccati così dalla vita particolare d’ogni forma, avere un’anima per le pietre, i metalli, l’acqua e le piante, accogliere in sé come in un sogno ogni essere della natura, come i fiori l’aria al crescere e al calar della luna”.
Georg Buchner, LENZ
Le immagini, in fondo, non sono che forme e al di là dei significati razionali che siamo abituati ad attribuirgli vi è un luogo dell’immaginario che sfugge alla comprensione logica e al quale si può accedere solo con l’intuizione immediata.
E’ la forma potente, l’archetipo, che è comprensibile a tutti e a cui nessuno sa dare una ragione.
Ma se riusciamo per un attimo a liberarci dal peso dell’accadimento, il mondo delle forme si libera, va al di là del senso immediato, si spinge alla ricerca dei simboli originari, per sconfinare, sino a perdersi, negli incerti territori del mito.
La tavolozza dei colori
10 giugno 1994
Nel grande soggiorno inondato di luce, appesa sul muro, conservo la tavolozza dei colori che fu di mio padre.
Un po’più in alto un suo quadro, una natura morta con un vaso di fiori, di fianco una scultura in marmo di Carrara “anima” di Norman Mommens e accanto, proprio accanto, una mia fotografia che lo ritrae in uno dei luoghi che amava di più su questa terra: l’uliveto di Piano di Ruca, nelle campagne di Rapolla, dov’era nato.
Mi chiese egli stesso il ritratto “vorrei un’ immagine che mi ricordi nel pieno delle forze, quando non ci sarò più”e io al momento non ci feci caso anzi accennai una battuta per togliermi d’imbarazzo: mi sembrava troppo presto pensare a quel momento.
Il suo sorriso, carico di dolcezza é lì accanto alla sua tavolozza ed insieme a essa racchiude la sua vita.
Arboréa
“Gli alberi sono santuari. Chi sa parlare con loro, chi li sa ascoltare, conosce la verità”
( Hermann Hesse )
Fin da bambino, negli alberi, fra gli alberi, mi sono perduto. Sognavo il pianeta di Arboréa popolato da uomini alati.
Da allora, e per sempre (perché gli amori infantili mettono radici nel cuore), ho parlato con loro.
Con gli alberi si parla a bassa voce, muovendo passi leggeri per non coprire il fruscio delle foglie agitate dal vento. Ogni giorno, silenziosamente, passo accanto al grande castagno, lo osservo, se ne sta solo, forte e solitario, da molto prima che io nascessi ; lo ringrazio per la sua presenza maestosa, per i suoi frutti abbondanti, per la sua scorza tenace. E’ come se fosse il padre di tutti gli alberi del mio giardino: quando lo incontro mi sento più forte.
Orvierto
12maggio 1994
Percorrevo una stradina polverosa appena sotto le mura di Orvieto, ed ero stranamente pensoso.
Forse non ero propriamente pensoso, ero insoddisfatto.
L’insoddisfazione era tutt’intorno, mi seguiva come un’ombra, mi pesava addosso come se avesse acquistato una dimensione corporea.
La si poteva scorgere nei passi lenti mentre mi arrampicavo su per la salita: era come se fossi in attesa di qualcosa che tardava a venire.
Avevo provato svogliatamente alcune inquadrature, più che altro per un’abitudine fisica a misurarmi con le immagini e forse anche per aiutare il tempo nel suo faticoso trascorrere.
Riflettevo come accade talvolta sul senso di quello che andavo facendo e su come molto spesso le fotografie siano fatte di nulla, una piccola luce, un segno, una presenza improvvisa ed ecco per vie misteriose comporsi l’immagine tanto attesa.
Un’automobile alle mie spalle avanzava a fatica, sentivo distintamente il rumore sordo del vecchio motore educato alle strade di campagna, sollevai d’istinto l'apparecchio fotografico all’altezza dell’occhio ed attesi, senza voltarmi.
L’auto mi superò tossicchiando in una nube di polvere per sparire rapidamente al mio sguardo. Sola rimase una nuvoletta bianca sospesa fra i fiori e la strada, e dopo un attimo non c’era più.
Vicinanze
15 febbraio 1994.
Sono convinto da sempre che esista una “vicinanza” fra le fotografie, una presenza capace di unire le forme e i segni per collocarli in una posizione di riguardo nella nostra mente e nel cuore.
Eppure misurarla, capirla, non é facile, così come non é facile spiegarla con il linguaggio delle parole, mentre talvolta é così semplice e naturale nel mondo dei segni.
La notte, quando tutto é silenzioso e anche lo sguardo si fa più sereno, spesso mi rinchiudo nello studio, inquieto giro attorno al grande tavolo in legno, mentre su di esso, informi e confuse, le immagini attendono, forse anch’esse inquiete, di trovare una loro collocazione nel mondo.
E’ questo un rito che mi é familiare: l’ho appreso da mio padre, dalla sua silenziosa tenacia, dal suo osservare, al tempo stesso tenero e testardo, dal suo insaziabile bisogno d’ordine e d’armonia che si risolveva a volte improvviso, con un segno rapido sulla tela, ma decisivo.
Con le fotografie può accadere pressappoco la stessa cosa: le guardo e le riguardo infinite volte, le tocco, le allontano, le dispongo in sequenza cercando di comporre un percorso logico, le ordino in fila, come vagoni trainati da una locomotiva invisibile.
Cerco di individuare un ordine, un valore, un senso, alle immagini, per dare un ordine,un valore e un senso anche alla mia vita come produttore d’immagini.
Il primo tentativo in genere é quello di ordinarle per famiglie: gli alberi e le foglie da questa parte, i visi, le braccia, le gambe, gli sguardi da quest’altra, i lontani paesaggi da quest’altra ancora e così via. Eppure spesso queste fotografie, pur avendo vincoli di parentela fra loro, non stanno bene assieme, anzi a malapena si sopportano, proprio come accade in certe famiglie.
Bisogna tentare allora altre strade, cambiando l’ordine delle cose, accostando la mano alla sabbia,l’alaimmobile al ferro, l’ombra sul muro ai rami mossi dal vento, legando le immagini a un filo sottile, ma forte, percorrendo il sentiero silenzioso che unisce le parole, le cose e i segni del mondo e che parla il linguaggio comune della “vicinanza”.
Proviamo a guardare le stelle....
10 agosto 1994
Proviamo a guardare le stelle.
Spettacolo grandioso, talvolta inquietante, sicuramente illusorio: quegli astri tremolanti non sono più là ed ogni punto luminoso ci proviene, singolarmente sfalsato nel tempo, da migliaia, talvolta milioni di anni-luce.
In pratica ciò che vediamo non esiste più, in quella forma, da tempo immemorabile.
Le fotografie, che costellano il nostro universo immaginario, ci parlano anch’esse di qualcosa di definitivamente, irrimediabilmente scomparso.
I nostri ”soggetti”, con quelle luci, con quelle transitorie presenze, non sono più là, né lo saranno mai più.
La capacità di catturare con precisione lo “spectrum” del mondo visibile, per riproporlo infinite volte allo sguardo “proprio com’era allora” rappresenta sicuramente uno degli aspetti più affascinanti dell’immagine fotografica ed anche uno dei motivi, più o meno riconosciuti del suo straordinario successo.
Gli uomini moderni ( i fotografi sono fra questi ) probabilmente osservano di rado le stelle e questa disattenzione porta inevitabilmente a prendersi troppo sul serio.
Infaticabili” mosche cocchiere”, ci domandiamo impazienti se ci abbiamo messo tutta l’onestà, la volontà, l’intelligenza nell’accostarci al reale.
Ma la risposta tarda a venire; forse perché é così difficile delimitare l’orizzonte di un mondo illusorio con concetti altrettanto illusori: la verità, l’obbiettività,il vigore, la forza, la bellezza, la composizione, la creatività, la soggettività, l’etica, l’estetica, l’arte, la scienza, il tempo, lo spazio, la vita ed infine la morte.
Forse sarebbe meglio tacere.
Dal suo disperato esilio Diane Arbus sosteneva che la fotografia fosse “un segreto su un segreto”, e forse aveva ragione.
Sognare
30 aprile 1994
Vorrei che i miei pensieri fossero così dolci da far ronzare le api nel tuo cuore.
Quando dico pensieri intendo i segni del mio pensiero, le parole, i gesti, i segni sulla carta fotografica, ma anche sulla carta comune, l’amore e il desiderio di essere amati.
In fondo tutto si riconduce alla necessità di lasciare una traccia che parli il linguaggio dell’affetto, dello stupore e talvolta della condiscendenza per il mondo, nel quale riconoscersi ed essere infine riconosciuti.
Il desiderio di testimoniare, di conoscere, di appartenere, é molto spesso segnale della paura della solitudine, dell’incertezza, della precarietà che contraddistinguono la nostra presenza.
La capacità di sognare ha molte attinenze con il gesto fotografico: in ambedue vi é una presa di distanza dallo spazio e dal tempo, vi si trovano le tracce, i sintomi di un accadimento reale, ma trasposti in un luogo che si allontana a rapidi passi dalle sue radici per formare una sorta di universo a parte.
Le persone adulte temono la parola sognare, come fosse un indizio di uno stato di debolezza, di fuga dalla realtà e dalle responsabilità ossessive che la società ci cuce addosso come un abito del quale non possiamo liberarci.
Eppure tutti sentono il bisogno di evadere da questo stato di costrizione e questo forse può spiegare l’enorme successo che la fotografia riscuote nella società contemporanea.
La fascinazione che le immagini fotografiche (e non solo quelle) esercitano sugli uomini è determinata forse dal loro carattere ambiguo: sono indicatori della realtà ma ci permettono anche di intravvedere la possibilità di una via d’uscita da essa.
Per usare una metafora molto conosciuta possiamo dire che esse sono “specchi e finestre” del mondo e sul mondo.
Ci permettono di conoscere, di esorcizzare, di amare, di comprendere, di sopportare le innumerevoli esperienze emotive che segnano la nostra vita, perchè in fondo ci consentono di sognare.
Liaisons
10 aprile 1994
La parola francese liaison esprime forse meglio di quella italiana legami la multiforme varietà di rapporti ed implicazioni che consentono alla fotografia di legarsi al mondo visibile e di mettervi radici.
I fotografi vivono la loro avventura conoscitiva, il loro errare continuo, fisico oltre che metaforico, come eterna Odissea, durante la quale si ancorano qua e là all’universo dei segni, per conoscere mostrando, ma anche per farsi riconoscere.
La transitorietà stessa dell’esperienza umana é forse la molla che ci spinge prepotentemente a tentare di lasciare una traccia del nostro passaggio così come nella nota favola Pollicino lascia cadere delle briciole di pane per non smarrirsi e ritrovare infine la strada.
Con rammarico, in una delle ultime poesie al figlio Memeth, il poeta turco Nazim Hikmet, ormai prossimo alla morte, avverte come non ci si possa saziare del mondo e nelle sue parole si può cogliere una sorta di nostalgia del futuro .
Forse per questo, alla ricerca di certezze e di approdi, il fotografo si industria a rinchiudere il mondo nella sua portentosa macchinetta, il suo sguardo acuminato gli consente di selezionare, distinguere, ordinare ed escludere a suo piacimento porzioni del mondo : il suo potere é quello di appropriarsi della realtà operando delle scelte visive.
Attraverso di esse sembra voler scardinare il rapporto fra spazio e tempo e mentre la vita inesorabilmente gli sfugge, come l’aria fra le dita di una mano, ha la consolatoria sensazione di creare un legame duraturo col mondo e dialogando con esso consumare il rito dell’appartenenza.
Gran parte del mondo, sembra dire, voi lo conoscete attraverso il mio sguardo, e questo fa sì che tramite la conoscenza visiva finiamo per appartenerci l’un l’altro, oltre i confini di ogni singola esistenza.
Consci di questo ruolo privilegiato i fotografi più attenti provano una sorta di insofferenza verso i codici omologati dalle proprie culture e tentano faticosamente di spingersi oltre raffigurando il mondo ma anche interrogandosi su esso.
Platone constatò come i sapienti e gli ignoranti non si applicassero alla filosofia: i primi già sapevano ed erano sazi del loro sapere e i secondi, non avendo coscienza della propria ignoranza, non intendevano uscirne.
Coloro che stanno nel mezzo vivono nel luogo del dubbio e dell’incertezza, moderni Siddharta instancabilmente cercano la via e mai la trovano, rimettono in discussione il sapere riconoscendo che nulla é mai certo, nulla é definitivamente raggiunto.
E così il lavoro continua, senza sosta, giorno dopo giorno, e insieme a quello di milioni di altri uomini costituisce il profondo legame che tutto unisce.
Forse c’entra
7 settembre 1994
Sorvolando il nostro sperduto pianeta osservo i monti e le valli che scorrono senza sosta oltre i finestrini dell’aereo.
Si vedono le nostre case laggiù.
Dentro le case, lungo le strade percorse da minuscole automobiline, sembrano perdere peso gli affanni degli uomini.
Quando saremo a terra troverò puntuali ad aspettarmi, il mutuo della casa che scade, il mal di schiena, la fila al casello dell’autostrada, il rimpianto dell’amore che fu, il 4 in matematica di mio figlio, la televisione che trasmette lo spot dei pannolini ultra sottili, i viraggi al selenio, per mantenere sempre giovani le mie stampe, mentre io sono qui che mi consumo nell’incertezza su di un aereo di stagnola appena sopra l’orizzonte del cielo azzurrino.
Accanto al mio sedile, un signore molto serio, segue dalle pagine del Financial Times le fluttuazioni del Marco tedesco e forse pensa agli investimenti futuri.
Provo un senso di pena, di inadeguatezza, vorrei che non atterrassimo mai più, mi riaffiora nella mente quel piacere incosciente e un pò sadico di quando da bambino davo fuoco ai formicai, senza sapere perché. Insomma vorrei fuggire.
Ma questo che cosa c’entra, si chiederanno in molti, con una raccolta di fotografie?
Forse c’entra.
Primo incontro
3 settembre 1994
Ad alimentare le passioni della vita c’é spesso un primo incontro.
Il mio primo incontro con la fotografia avvenne un’estate di molti anni fa a villa Shneiderff, sulle colline di Firenze, dove sono nato.
Durante le vacanze estive, un pomeriggio andai a far visita al “Capitano”. Così veniva chiamato mio nonno, in ricordo dei suoi avventurosi trascorsi militari.
Mi ricevette sull’uscio del suo appartamento, tutto vestito di bianco, e quella volta, ritenendomi abbastanza grande -avrò avuto 13 o 14 anni- mi condusse nel suo studio per mostrarmi, allineate sulla parete, le fotografie che aveva realizzato in Congo Belga all’inizio del secolo.
Erano stampe superbe ottenute da lastre in vetro che raffiguravano scene di vita tribale, paesaggi, ritratti.
Improvvisamente compresi quanto si potesse realizzare con un apparecchio fotografico: credo che fu allora che iniziai ad amare la fotografia