Giovanni Arpino per il volume "Italia di Lucania" , Ed. Il Diaframma Canon/Fotoselex, 1980
ITALIA DI LUCANIA
"L’occhio esiste allo stato selvaggio", scriveva Andre Breton circa sessant'anni fa, e in quel suo saggio ricordava una frase di Mozart morente: "Comincio a intravedere ciò che si sarebbe potuto creare con la musica".
Ricominciamo da capo, ogni volta, magari anche per fallire. Persino i fallimenti costituiscono scoperte, così come i terremoti ci ridanno coscienza della Terra, terribile madre.
Cos'e una fotografia? Un anello infilato al dito di un fantasma reale. Forse il fantasma si lascia intravedere solo grazie a quell'anello. Forse è l'ultima fiaba. Certamente il fotografo d'oggi è l’ultimo uomo che dietro il suo obiettivo sa di doversi imporre il comando "c'era una volta". Scatti. E "quella volta" é già finita.
Sono incapace di condurre un discorso organico, ragionato, ragionevole, sulle immagini di Francesco Radino. A modo loro tentano un'odissea, una esplorazione, una caduta all'inferno ma con intenti paradisiaci. Sono e sanno di John Ford, poeta delle distanze e della polvere, e di Millet, pittore di angeli.
Ma la fotografia non accetta paragoni, vuole starsene in proprio, tutta casa laboratorio bottega, rifiuta gli accostamenti, patisce a morte i giudizi incrociati con le altre arti. Sempreché ci siano arti. Sempreché ci siano artigianati dietro le arti. Sempreché esistano materiali d'arte. Sempreché ci sia una creatura (qualcuno direbbe "un utente") in grado di imparare da arte e artigianato, in grado di fame tesoro e trasmetterlo. La civiltà visiva ci bombarda, ci consuma.
Ci fa vedere guerre e guerriglie, elmetti e uomini mascherati, mitra che sgranano colpi, sangue di operazioni a cuore aperto mentre siamo a tavola con un piatto di spaghetti. Siamo orfani di una tradizione orale e poi di una tradizione scritta. Gutemberg, chi fu? Ma la nuova tradizione visiva o si salva attraverso le immagini o perirà in noi. Quante sono le immagini da sacrificare, in immenso olocausto, per salvarne una?
Francesco Radino, di cui non conosco il volto e le mani (le mani di un fotografo sono importanti, decisive, come le mani di un pittore, di un concertista? Ditelo voi, esperti) riscopre una Lucania, un'ltalia di Lucania che è presepe, è omerica, è ruvido paradiso, è distanza, è aria lontana, è ritmo lentissimo scandito da sole e stelle e non da orologi, ed infine è tragedia.
E’ una briciola di Italia pura, soave, antica come il miele e come l’ape che fabbrica il miele. E’ di una felicità modestissima, nascosta, armonica. E’ scoperchiata sotto alti cieli che infine deflagreranno. E’ deposta su visceri planetari violenti, che infatti esplodono. Ma e indubitabilmente mirabile che un uomo si accosti ad una briciola di Italia partendo da lontano. Molti paesaggi, molte greggi, molte nuvole, molte curve di sentieri devono trascorrere prima che per Radino arrivi il volto di un uomo. Tutto sia terra, all'inizio. L'uomo, pur affaticato e condizionato, e pur sempre un ospite. Doloroso ma quasi incongruo, pagante dazi folli, ma sempre passeggero.
Lo confesso, una volta per sempre: davanti a certe immagini fotografiche, che sono ritratti e "memento", mi ritrovo come il leggendario negro o il leggendario pellerossa che guarda una collana di perline, uno specchietto. Così anch'io venderei Manhattan per pochi dollari.
Ogni fotografia va odiata finché non diventa proverbio, immagine di un fraseggio umano proverbiale, finché non si installa nel suo ruolo di favola da trasmettere. Poche gallerie d'arte sanno raccontare le loro favole fotografiche cosi come in poche grandi stalle si mantenne a lungo, accanitamente, la tradizione delle fiabe.
Il fotografo sa chi e? Lo hanno vivisezionato altri maniaci di pellicola, registi e simili, ma non e stato ancora affrontato da un esperto di caratteri. Il fotografo fotografa, si psicanalizza da solo, favoleggia in proprio, "riscrive" nella scelta. Ma nessuno gli ha ancora dettato un "chi e?". "Il pensiero è uno stato di grazia. E la grazia è uno stato di gioco", scrisse anni fa un saggio, lo spagnolo Jose Bergamin.
Dobbiamo riconoscere che il fotografo (ma ci vorrebbe la «f» iniziale maiuscola, i dilettanti gettino gli apparecchi) obbedisce alle regole di un suo gioco, che e esigentissimo, micidiale, dispersive, avaro, onnivoro e poi digiunante. Altrimenti l’immagine non nasce. Una vera immagine viene partorita - se non sbaglio, ma forse non sto sbagliando - dopo una gestazione lunga come quella dell'elefantessa. Non e lo "scatto", ma l’attesa dello scatto che conta. II resto sia pure meccanica.
Mi spiace molto (si fa per dire) ma non sono d'accordo con Roland Barthes. Ha scritto Barthes (ne "La camera chiara. Note sulla fotografia", 1980) parole troppo licenziose a proposito dell'immagine, di "ogni" immagine.
Ecco un esempio: «ll destino della fotografia sarebbe dunque questo: facendomi credere (ma una volta su quante?) che ho trovato la "vera fotografia totale", essa crea l’inconcepibile confusione tra realtà ("cio che è stato!") e verità ("E' esattamente questo!"); essa diventa al tempo stesso constatativa ed esclamativa; essa porta I'effigie a quel punto di follia in cui l’affetto (I'amore, la compassione, il lutto, I'impeto, il desiderio) e garante dell'essere. La fotografia si avvicina allora effettivamente alla follia, raggiunge la "verità folle"».
Sappiamo che Barthes, con infinito gorgheggio sofistico, ha dichiarato che due sono le strade per la fotografia: farsi un'arte, perche nessuna arte puo venir detta pazza e perciò garantisce al fotografo la rivalità-familiarita con l'artista; farsi banale, e quindi tiranna, in una societa che "crede" solo nelle immagini e beve qualunque sorta di immagini. Non sono d'accordo e per una sola ragione, o quantomeno sospetto: la fotografia è vera solo se è bugiarda. Chi la traveste e la vende-svende come documento è un plagiario. Bisogna credere all'immagine, solo se questa è ricca di autentiche menzogne. Per avere un "credo" bisogna saper mentire.
Tentato dalla bellezza è Francesco Radino nella sua Italia di Lucania. Greggi e muri, orizzonti e sottane, una mano alla vendemmia (solo la mano è visibile) o una tipica festa religiosa lo "costringono" a ricercare la bellezza. Che è pastorale, ma di una pudicizia sovrana. Scusatemi se sono bella, sussurra ciascuna delle sue immagini. Nelle favole antiche c'erano sempre gli oggetti magici in grado di salvarti dai pericoli. Una noce, una castagna, un osso di ciliegia. Avvertita dalle fate, la povera contadinella o la povera principessa, cammina e cammina, potevano rompere quella noce, aprire quella castagna, spaccare quel nocciolo solo in caso di estremo pericolo. E quando inevitabilmente accadeva, ecco uscire (da noce, castagna,nocciolo) carrozze e guerrieri, spiriti magici, bastoni che picchiano da soli, unguenti miracolosi.
La "camera oscura" (con licenza di Barthes, già citato) è anche questo strumento, da usare nell'attimo supremo del rischio. La "camera oscura" non teme di autocensurarsi, di bocciare, scegliere, cancellare. E una placenta implacabile. Non ne vieni fuori se non hai già voce "dettata dentro".
L’occhio vuole la sua parte. La fotografia vuole - forse ha già - tutto. Amarla è difficile. Tutti, da ragazzini, abbiamo scalciato una palla. Uno solo, su milioni, diventa Omar Sivori. I dilettanti della fotografia, che sognano di essere Sivori, non hanno pazienza. Mangiano rullini, sprofondano tra apparecchi, esercitano (invano) lo sguardo. Il vero uomo di immagini sa - anche - che un'immagine può venir fuori da sola, come un verso. Essere puntuali all'appuntamento con quel verso: lì e il grande gioco, lì e I'allenamento, lì la fortuna.
Poi tutto dipende dal lavoro, da un'applicazione diabolica e ragionieresca, da un non lasciar mai dormire la mano (lo fa anche il poliziotto giustiziere con la "Colt" sotto il cuscino).
Francesco Radino è un narratore. La sua "tendenza" e il racconto. Lo rinchiude, lo imprigiona, lo limita entro un fotogramma, ma questo fotogramma va "letto" a lungo e da lunga distanza, bisogna ritornare indietro e rileggerlo, come si fa nei libri. Allora scatta, dal di dentro dell'immagine, qualcosa in piu, finalmente qualcosa di essenziale: la minuscola luce racchiusa in un sorriso, la piega di un albero, la sfumatura di un orizzonte che e lì, fisso, ma che di colpo sognamo in corsa.
L'Italia di Lucania siamo noi. Noi pastori di presepi, noi di radici contadine. Noi figliati da lunghi scialli neri materni. Noi vittime dei fulmini e delle rabbie geologiche. Noi alunni del sole e per questo dannati a cibarsi solo di sole. Noi degli antichissimi matriarcati. Noi delle pecore sparse e del cane pastore che ci guarda e attende l'ordine. Noi della solitudine. Noi dei preti che costruirono un campanile per farci inginocchiare nelle albe e nei tramonti. Noi dimentichi di Venere e dell'Olimpo. Noi di pane solo e formaggio ancora più solo. Noi dell'umiltà e noi della recita, perché bastano un bicchiere e un invito per farci ridere e recitare. Noi di Ulisse. Noi del Padreterno che non ci dà piu del tu. Noi del somaro. Noi del berretto sugli occhi. Noi storti. Noi che ci arrampichiamo per sentieri sassosi e però profumati. Noi che conosciamo ogni tipo di morte e di pianto. Noi che veramente siamo nati facendo urlare le madri. Noi che abbiamo sputato fiele. Noi che non abbiamo niente da regalare, tranne le braccia e la pazienza. Noi che creperemo senza un saluto. Noi servi di codici sconosciuti. Noi martellati da storie che non ci riguardano. Noi angeli di un Cristo straccione.
Se ci guardiamo in faccia, in silenzio ci capiremo.
Giovanni Arpino