Sono spesso in viaggio ma non sono un viaggiatore. Mi basterebbe un pezzo di terra o un orizzonte di mare per poi fermarmi lungamente e osservare. Eppure sono spesso in viaggio alla scoperta di mondi (a me) sconosciuti, quasi sempre lontani e fra questi l’India, terra di penombre, sterminato orizzonte, spazio vago e considerevole nell’immaginario degli uomini che dimorano ad occidente. Prima di andarvi, nella primavera del 2002, me l’ero immaginata in molte e diversissime forme: dapprincipio in quella della mia infanzia, popolata da tigri e perfidi Thugs, poi, nell’età di mezzo, in quella di Kipling, miserabile e splendente, infine in quella intangibile e sacra del giovane Siddharta, vestito di luce.
Seguendo queste tracce mi è apparsa Benares con le sue mille rovine: rovine di pietre consumate dal tempo, rovine di uomini, così fragili sotto il cielo, il Gange -la linea di confine-, le radici degli alberi a ghermire la terra, lo sterco, il sangue, il canto interminabile che solo all’alba si spegne e il riaccendersi della vita, brulicante, assoluta, disperata, mentre le mani degli dei pietosamente accarezzano il mondo.
…“In alto l’essere, in basso il non essere, in mezzo l’intercapedine dove uomini e dei possono entrare in contatto”
Di tutto questo ho cercato una traccia che parli agli uomini di un sogno, di un bagliore, di una finestra sul mondo, di un Dio scimmia, di un’antica canzone, di uno sguardo condiviso, di una parola taciuta.
F. R. 2002