Lesbos è un avamposto d’Europa a poche miglia dalla costa turca, un braccio di mare azzurro separa destini e fortune di chi fugge dalla guerra e dalla miseria. Li chiamano migranti, non li vuole nessuno.
L’orizzonte è quello di sempre; dietro le nuvole si nascondono ancora gli dei che sembrano improvvisamente apparire e accarezzare la terra, alberi e pietre talvolta svelano i loro volti, il canto degli uccelli si fonde col suono del vento, il mare in lontananza attende che il fato si compia, perché così è scritto.
Dolcezza e asprezza si intrecciano e si confondono in ogni piega di questo viaggio, phatos e thanatos affiorano dalla trama dell’esperienza visiva come nei versi ossimorici del Petrarca “O viva morte o dilectoso, male”.
Tessere di un paesaggio instabile dove concetti antitetici si mostrano allo sguardo indissolubilmente legati.
A 7 anni è morto il piccolo Jafar e ora se ne sta muto sotto un palmo di terra fra gli ulivi e i papaveri del cimitero di Mitilene. Accanto a lui altre misere spoglie, quasi tutti bambini, raccolti gli uni accanto agli altri, come per tenersi compagnia. Nelle vicinanze del porto, di fronte a quello che fu il grande albergo ottomano di Thermes, una piccola stele ricorda il naufragio di Abdul che aveva solo 6 anni, Ginan che ne aveva 7, Kamar 17, Fatma 30 e altri e altri ancora, per non dimenticare.
Un vasto mare, mostrando la sua struggente bellezza, nasconde altri corpi cullandoli nei fondali per non offendere lo sguardo di un’umanità che s’è fatta cieca e sorda. Ma che Europa è mai questa che dopo aver depredato il mondo per costruire i suoi imperi oggi rifiuta i frutti avvelenati delle sue rapine?
Cercano di fermare il vento con le mani mentre un’onda inarrestabile di esseri umani bussa alla porta delle nostre coscienze impedendoci di volgere lo sguardo altrove.
Nel campo di Kara Tepe un bambino ci mostra un piccolo cartello che recita in farsi: “grazie Europa per averci aiutati, quando sarò grande sarò io ad aiutare voi”. Non immagina quanto ne avremo bisogno!
Lesbos è un’isola dolce coperta di ulivi e il suo popolo, memore della sua lunga storia di frontiera, è accogliente e ospitale; il cibo è buono, il clima mite. A nord dell’isola seguendo un viottolo terroso che si inerpica su per le colline si apre una visione apocalittica: decine di migliaia di salvagenti formano una collina per ricordarci la storia di un’esodo che non ha precedenti, un monumento alla disperazione e alla speranza che non può lasciare indifferenti.
Ogni salvagente e ogni vestito una storia, ogni storia una vita come tante, fatta di affetti, di ricordi, di speranze e di sofferenze.
Vite proprio come le nostre e che oggi si vogliono destituite di umanità. Eppure quando incontri queste donne e questi uomini ne scopri la fierezza e la dolcezza, la vicinanza e il calore, hanno voglia di parlarti e di stringerti le mani, sono uguali a noi, siamo noi.
Una faccia una razza recita l’antico motto greco, e questa ne è una palpabile testimonianza. Al mio amico Annibale Pepe e alla sua sete di giustizia voglio dedicare questo lavoro, di cui mi domandava con insistenza e che desiderava così tanto vedere, pur sapendo della malattia che l’avrebbe portato via in pochi giorni.
Francesco Radino, per il catalogo della mostra "Lying in Between" per Fondazione Fotografie di Modena a cura di Filippo Maggia, Skira 2016